TEXTS

Attraversando un fuoco disseminato e ferace

Quel che resta del Fuoco / Curva Pura / 2022
Testo critico di Nicoletta Provenzano

«[..]qualche cosa che fu, là, in fondo, lontanissima nel passato, memoria perduta per tutto ciò che non appartiene più al qui. […] Incubazione del fuoco disteso sotto la polvere. Il fuoco: ciò che non si può spegnere in quella traccia fra tante che è una cenere». Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco
Nell’essenza duale e ambivalente del fuoco, come purificazione e generazione, distruzione e dispersione, la cenere ne rappresenta il definitivo, estremo stato trasformativo, un amato e amabile resto permanente e ineffabile, informe e resistente, un racconto muto che preserva e cela le memorie cancellate ed eternate dal fuoco di un perduto compiersi ed esaurirsi. Elemento fondamentale del sacrificio, espressione sacrale e conoscenza sapienziale, il fuoco è potenza depositaria di sistemi mitici e cultuali, valore polisemico, principio primo che forgia e tramuta la realtà in modo irreversibile, e la sua governabilità è origine e sinonimo di civiltà. Quali caratteri distintivi dell’umanità, fuoco e linguaggio divengono materia grezza residuata, sottrazione e possibilità di una r-esistenza, persistenza di una traccia, che nel testo derridariano Feu la cendre, tradotto in italiano con Ciò che resta del fuoco, assume un ritmo incalzante e fatidico, un’incisività vibrante e pulviscolare, vulnerabile e indecifrabile, un rivelarsi amorevole e impossibile. Nell’infinito e indefinibile segreto attinente tanto al continuum linguistico quanto alla corporeità labile e precaria, la memoria viva si estingue in un oblio bruciante, radicale e affettivo, nell’incorporeità simbolica del nulla che pure dischiude e suggella un passare disseminato, dissolto, purificato e sopravvivente. In un de-terminare trasceso oltre la metafisica del linguaggio, nella decostruzione ed articolazione semantica plurima di Derrida, la mostra, che prende titolo dall’omonimo polylogue del filosofo, indaga ciò che resta irriducibile, che vive sotto la polvere, che rimane indicibile, inafferrabile e disperso, mentre trattiene la verità di un’essenza trasformata nella distanza di una liminalità fisica e temporale. La cenere appare come deposito o dimora di un fondo veridico, luogo e identità, sopravvivenza e cancellazione, materialità che espone e manifesta tautologicamente se stessa, assenza nella stessa condizione di presenzialità, tanto instabile quanto inestinguibile, offrendosi come voto conclusivo, serbando e ricoprendo, in uno svanire quasi riconoscente alla luce oscura del nulla, il passato che appartenne all’essere, ora inintelligibile, intoccabile e immemoriale. Le differenti poetiche delle artiste Elena Bellantoni, Arianna De Nicola e Delphine Valli attraversano questo fuoco linguistico in un transito materico, concettuale e spaziale, lasciandone discernere la non univocità, sussumendo e sublimando i suoi termini opposti, la verità del suo irreversibile mutamento, il suo valore mediativo. Nel fondo reliquato del tempo e dello spazio trascorso, riformato ed espanso come punto di incidenza geometrica, nelle vestigia della materia accolta, custodita e avvolta nella perdita e nel dolore, nell’ardore poetico e politico che appare esaurito nel silenzio di una sepoltura, le artiste saldano, elevano e animano la fiamma di una forza che avvince, rigeneratrice e distruttrice, sublimazione e passaggio di sopravvivenze. Elena Bellantoni nell’opera fotografica Le Ceneri di Gramsci e Pasolini mette in atto una operazione concettuale e sentimentale site specific, incorporando il corpo vivo e vissuto della storia in un dialogo muto, risonante di echi nella libertà di una dimora sepolcrale, il Cimitero Acattolico, oltre il suolo consacrato dalla Roma pontificia. Sulle spoglie di Gramsci, nell’inquietudine e nel dramma irrisolto di Pier Paolo Pasolini, Elena Bellantoni interroga e riscrive l’intimità malinconica dell’assenza e le ceneri incendiate da un fulgore intellettuale, attuando una conversazione visiva tripartita, affidata allo sguardo dell’osservatore come quarto interrogatore della storia, in un volgersi insieme e un ritrovarsi verso la sofferta e fervida realtà italiana in lotta tra speranze e sfiducia, resistenze e contrasti, rigori e cedimenti. Nell’impossibilità o nell’irrealtà di un colloquio permangono i percorsi letterari, i testamenti politici, le carte nascoste tra i libri nella resistenza della prigionia, l’eredità di un ideale, i versi autentici e feroci di chi cerca splendore e tregua, perdono nella contraddizione. Nella foto in bianco e nero trascritta e trasposta nella luce dell’oggi e nelle sembianze dell’artista, le ceneri di Gramsci e Pasolini rimangono racchiuse nei rimandi linguistici, nella frontalità di un raffronto diacronico con entrambi, nello svelamento del tempo trascorso nella vegetazione che avanza, nelle parole di un dialogo ricercato che accompagna la ricerca artistica, infine nel paesaggio urbano e umano dei quartieri attraversati dall’aria «impura» di una sera del 1954: lascito odierno, incorporeo, di un chiarore civile. Nell’opera installativa La cura di Arianna De Nicola una riconciliazione con la distruzione e sparizione della materia diviene fenomenologia poetica della disgregazione, sentimento suturale e catabasi in una interiorità lirica struggente che trova lenimento e purificazione nella contemplazione di un corpo che non è più, ma resiste ancora nel nero di una epidermide lignea arsa e ritualmente cinta, compresa e racchiusa da un conforto di stoffe. La Cura, dal latino arcaico coira, coera - che la tradizione medievista faceva derivare da Quia cor urat: perché scalda il cuore e lo consuma - si fa premurosa dedizione per un’essenza ormai perduta, unendosi ad un vulnerabile perpetuamento affettivo, ad una perseverante gestualità simbolica. Quasi in un’ignizione metaforica, il dolore si assimila e si oltrepassa come compimento ineluttabile e flusso vitale necessario, intimamente congiunto ad una corporeità sottile e fatale, eterica e ancestrale, cerimoniale e sacrificale, inclusa in una trama radicalmente viscerale, sostanzialmente esoterica e trascendente. Tra le fibre tenaci di una discesa mistica gli accenti ceramici sono epifanie ritmiche nate dal calore di una mediazione ignea, misura e relazione di una prossimità tra la materia e lo spirito, tra la sedimentazione minerale e l’innalzamento astrale di una combustione pervasiva e mutativa. Il misterico si nutre dello scarto tessile, della forza creatrice e catartica della fornace, della dissipazione luttuosa e reliquiale contenuta in un’essenza arborea, per farne cicatrice e liberazione, incontro naturale e cultuale nella permanenza di un addio, tra le origini di un sentire primario. Lavorando la fiamma nella furia della fucina, Mechanical Absence (Una mattina ho acceso la radio e ho sentito una voce dire che il mistico non è colui che ha delle visioni ma colui che ha una visione) di Delphine Valli è un’elevazione spaziale che si forgia nella verticalità del fuoco, racchiudendo le ceneri dei giorni consumati nell’attesa, nella sospensione intellettiva e spirituale di un luogo confinario tra incidenza e separazione. Un’alchimia metafisica vibra nelle sfumature cromatiche, nelle bruniture propagate lungo il metallo lucente e irradiante che comprende e rilascia una sintesi assiomatica tra potenze lineari, condensazioni magmatiche e galvanoplastiche. Sinfonie fisiche si innalzano nella contrapposizione dei pieni e dei vuoti, disegnando tracce dimensionali aperte alla chiarezza tagliente dell’enigma, alla geometria audace e tensiva, pura e proiettiva, rivelandosi nitore icastico e materia viva dell’esperienza, trasformata in coscienza di una relatività tra spazio e tempo. L’equilibrio di una vampa immanente si impone sul caos, sull’assenza meccanizzata, lambendo se stessa in filamenti di luce, in timbri vividi e corpi finissimi votati all’altezza. L’artista governa una sostanza incandescente forgiando vertigini e direttrici congiuntive, custodi di un bagliore e di una fine alimentata e rigenerata dalla sua stessa estinzione: fecondazione e respiro vitale originato in una essenza bruciante e incendiaria.



Ascolatando il limite di ciò che siamo

di Amalia Di Lanno

Il suono è poesia. Lascia la ragione, ascolta e sentirai l'indicibile. Nessuna spiegazione, il segreto sta nella frequenza, in ciò che ci attraversa, in quelle parti non finite, la definizione del limite è il nostro limite. Liberiamolo, nascosto nel semplice fluire del tempo, nelle opere informi prima del fuoco, solo semplicemente natura. Ci immergiamo nel mare, un incontro -senza limite- per lasciare la riva, e seguire ciò che ancora non siamo.



Processi di trasformazione

di Annalisa Ferraro

Arianna De Nicola, artista che da tempo indaga i processi di trasformazione della materia, gli effetti, sull’inconscio umano, della sua lenta scomparsa, senza mai temere il successivo possibile disorientamento, lo scontro tra ciò che è noto e ciò che appare nuovo perché mutato nella sua essenza oltreché nella sua forma. Le opere di Arianna De Nicola invitano a mettersi in gioco, a non fermarsi all’apparenza, a cercare ciò che non è manifesto per accrescere la propria conoscenza di ciò che ci circonda. È l’artista stessa che con meticolosità costruisce linee di confine, dalle forme indefinite e prive di colore, nel tentativo di esortare l’animo di qualunque viandante a superare quelli che in realtà non sono altro che principi di nuovi viaggi.



Pratiche per costruire frammenti, per indagare limiti

Inside Art #117
di Eleonora Bruni

L'analisi del limite e la sua capacità di suscitare, al tempo stesso, la volontà di superamento di quel confine stesso e l'incertezza dovuta alla possibilità imminente di fallimento, sono punto focale della ricerca artistica di Arianna De Nicola, artista romana attiva tra Italia e Spagna. La sensazione di appartenere contemporaneamente a due paesi diversi “ha amplificato la mia percezione di libertà e coraggio” racconta Arianna. “Sentirsi appartenente a due Paesi allo stesso modo e un abbattimento dei limiti di confine”. Continua spiegando di come il viaggio, riqualificando il pensiero, rigeneri di conseguenza la ricerca artistica e dice “incentivi il coraggio verso conoscenza, scoperta, ignoto e impulso della metamorfosi”. Muovendosi tra performance, installazione, scultura e disegno, ad interessare l'artista sono le possibilità creative del limite in relazione al movimento, o meglio all'essere dell'essere umano nella società contemporanea, del quale si propone di scoprire profondità e abissi. “La connotazione negativa di frontiera assume - spiega- un valore positivo diventando stimolo verso nuovi orizzonti, fa riferimento al desiderio e all'impulso dell'essere umano. L’indagine nasce dalla necessità di oltrepassare le barriere mentali che il contesto sociale trasmette e dal tentativo di svelare l’istinto.” È con Deep, installazione del 2017, che l'artista indaga la discesa metaforica nelle viscere dell'essere umano, travalicando il confine tra mondo fisico e psichico, visibile e invisibile. Un viaggio intimo e personale che ci porta al confronto e al superamento di noi stessi. “Deep deriva da deep- sea ossia alto mare, il termine - dice De Nicola - designa l'area del mare posta al di là della Zona economica esclusiva, che quindi non e sottoposta alla sovranità di alcuno Stato. L’alto mare diviene un non-luogo, rappresentativo della nostra epoca, caratterizzato dal transito, dal passaggio e da un individualismo solitario. L’estetica oscura del mare diviene metafora di immersione nel profondo inconscio, dalla terra ferma diviene necessario il tuffo allegorico nella profondità dell’abisso.” La presenza di frammentarie parti del corpo umano realizzate in ceramica simboleggiano la mancanza di fisicità mentre “la connessione – continua l' artista - di un’immagine con la sperimentazione sonora amplifica il raggio emozionale e introspettivo sul quale l’opera vuol far riflettere.” Overcoming e il risultato di questa ricerca: una serie presentata quest'anno al Center 14 di Alicante e dedicata al desiderio di abbattimento di barriere fisiche e psichiche che influenzano il nostro agire nel mondo. Seppur dall'aspetto minimalista, si tratta di un lavoro concettuale che ruota attorno ad una performance -Overcoming the coastline, 2017- in cui l'artista indaga l'idea del superamento delle barriere come opportunità di crescita e di messa alla prova, lavorando con un cavo normalmente presente nei porti, elemento di confine tra la terraferma e il mare. De Nicola ci spiega come il bisogno di forte riduzione cromatica, che spesso giunge alla monocromia, nasca da convinzione personale: “less is more- dice - e una filosofia che applico alla vita di tutti i giorni, si collega al bisogno di riduzione vincolata alle cause fisiologiche delle sensazioni cromatiche. L’ossessione con il monocromo, in particolar modo con il bianco e le sue variazioni, comprende la connessione con il luminoso o l’inizio. Eliminando tutto cio che e superfluo, ci si concentra sulla poetica. Allo stesso tempo la sperimentazione interdisciplinare rende possibile, nel mio percorso, l’espressione di uno stesso argomento in diversi linguaggi, soddisfacendo la necessità di ricerca.” Con Il giardino che non c'e, installazione site specific, realizzata lo scorso anno per l'Aratro di Campobasso, l'artista cerca di delineare un luogo fisico non presente, attraverso minime coordinate materiali. Fondamentale diventa lo spettatore che, con il suo muoversi nello spazio, attiva l'opera: “Il paesaggio, assume un valore metaforico – spiega De Nicola - come immagine della condizione umana. Utilizzando la poetica del giardino si evoca un altrove che offre la possibilità di essere coltivato. Attraverso l’assenza si mette in atto un diverso modo di rapportarsi con lo spazio, stimolando la partecipazione sensoriale dello spettatore e creando un rapporto tra opera, spazio espositivo e fruitore.” Protagonista della scena: il bianco. Il bianco collega le diverse parti dell'opera tra loro e simboleggia contemporaneamente l'inizio e la fine. È nel calpestare il suolo dell'opera, che lo spettatore si ritrova a confrontarsi con una visione rigenerata di credenze e certezze. De Nicola si propone di ricreare un luogo quasi mitologico, archetipo di tutti i giardini, simbolo di un umanità primordiale.

PROGETTI
Il suono del limite e il titolo del progetto che Arianna De Nicola presenta, dal 25 Maggio, presso gli spazi del 16 Civico a Pescara. Realizza un progetto multi-sensoriale composto da un'audio-installazione- “ entra in una stanza – spiega l'artista - dove, dal buio, attraverso un raggio di movimento producono un suono celebrativo, allo stesso tempo l’ondulare lirico e inquietante degli elementi prevede il rischio della rottura, dando forma, in questo modo, al suono del limite, che si mostra attraverso l’azione dell’incontro si luce, emergono delle aste di ceramica sospese nell’aria, che attraverso il e dello scontro. Lavoro – continua De Nicola - con una serie di elementi di ceramica con dei fori nei quali introduco dei chiodi, e con un martellare petulante, li inchiodo al muro. Il gesto perturbante di questa azione vuole evidenziare il rischio dell’unione e la possibilità di rottura” continua. Interrogandosi sul possibile suono del limite, l'artista indaga le relazioni tra individui, tornando al concetto di frontiera come luogo di creazione, ma anche di possibile rottura.



Il suono del limite

Testo critico
di Maila Buglioni

Fin da sempre l’uomo ha rivolto la sua attenzione verso l’osservazione dei fenomeni che ci circondano col fine di comprenderne i meccanismi che lo governano per poi andar oltre. Esemplare di tale propensione è stato Leonardo – scienziato, artista, inventore e molto altro ancora – che, attraverso la sua curiosità illimitata, ha esplorato arcani misteri come la capacità locomotoria propria degli uccelli (il volo) o il funzionamento dell’organismo umano. Interessi incessanti che l’hanno portato a spingersi oltre limiti precedentemente considerati impossibili grazie al suo ingegno. Questa tendenza ad oltrepassare confini a noi noti ritorna costantemente in ogni campo dall’essere umano. Nell’arte contemporanea tale inclinazione si è palesemente manifestata soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento con l’Impressionismo, il Pointellisme, e le avanguardie d’inizio Novecento che manifestarono in termini plastici l’esigenza di osservare dal vero la natura per poi rielaborarla e reinterpretarla attraverso varie modalità espressive finendo così ad approdare nei decenni successivi all’astrazione. Dalla seconda metà del XX secolo, con la nascita di nuove discipline come la Semiotica (De Saussure), alcuni artisti – Kosuth in primis – hanno sentito l’esigenza di spingersi ancora più in là teorizzando l’arte concettuale e, in seguito, giungendo alla smaterializzazione dell’oggetto/soggetto preso in considerazione. Tutt’oggi tale processo continua incessantemente con l’impiego sia di tecniche innovative e tecnologiche sia tradizionali. Considerazioni, queste, che ben si connettono con i temi indagati da Arianna De Nicola, la cui ricerca è imperniata sulla percezione emotiva e sul tema del limite inteso come valore positivo e stimolo verso nuovi orizzonti espressivi ed emozionali. Accecata dalla luce che proviene dalla finestra spalancata mi accingo ad entrare nel suo studio. Qui mi accolgono lavori di vario genere, sia conclusi sia work in progress, caratterizzati dall’assenza del colore e dal minimalismo materico riportando la mia mente verso quella tendenza al grado zero portata ad esasperazione in primis da Malevic nel 1918 con il suo “Quadrato bianco su fondo bianco”. Dopo di lui numerose superfici candide occuparono molte pagine della storia dell’arte con le opere di Nicholson, Manzoni, Burri, Fontana, Buonalumi, Nevelson e tanti altri. Ebbene, su tale linea s’innesta anche il lavoro dell’artista romana che, tuttavia, tende a sconfinare oltre la mera bidimensionalità tonale per approdare alla tridimensionalità con le sue installazioni. Sculture in ceramica di varie dimensioni invadono lo spazio circostante, sia orizzontalmente sia verticalmente, col fine di produrre nuovi ed inaspettati suoni che, per divenire udibili, attendono l’intervento umano. Grazie all’azione performativa la De Nicola libera l’opera dal suo essere semplice oggetto da osservare arrivando, negli ultimissimi esiti della sua indagine artistica, a renderla partecipativa. Emancipazione che comporta sia il superamento del limite psichico indotto dal contatto, visivo o tattile, con l’opera d’arte, sia l’avvio verso il processo di decostruzione della stessa installazione, dovuta in parte dalla fragilità del materiale utilizzato e dalla delicatezza delle forme che contraddistinguono i lavori concepiti per “Il suono del limite”. Sottili aste in ceramica sospese nel vuoto attendono l’incontro-scontro con un’entità altra, umana o fenomenologica che sia, per dar origine ad inaspettati esiti acustici e/o perturbanti affatto prestabiliti. L’incursione del caso ed i suoi effetti sono portati alle estreme conseguenze dall’artista che, nella sua poetica, include la contingenza come possibile impulso da cui avviare nuove investigazioni incentrate sui concetti di rottura e sconfinamento col fine ultimo di dar luogo ad un sistema caratterizzato da un precario equilibrio. Lo spazio evocativo ideato dalla creativa romana, denso di strutture sonore e immagini, invita il pubblico a riflettere su questo incontro-scontro tra le parti, dove lo spiazzamento è affrontato in forma leggera. Elementi in ceramica, di varie dimensioni, sono appesi alla parete e lasciati oscillare mentre l’azione performativa, documentata nel video, ci rende partecipi della loro collocazione presso 16 Civico. Obiettivo ultimo del gesto dell’inchiodare le sculture, in forma solitaria o in serie, è rammentare al pubblico la tematica della moltitudine e dell’insieme intesa come metafora del coraggio dell’unione, sia tra individui sia tra entità di diverso genere, implicante eventuali e possibili conseguenze. L’attenzione verso il concetto di unione tra le parti è qui esplicitata tramite il richiamo a forme vegetali e figurative riallacciandosi alla connessione intrinseca tra l’uomo e la natura, tra il mondo umano e l’universo vegetale. Riferimenti e nessi che chiamano il fruitore ad una riflessione sul vissuto interpersonale emanato, oltretutto, dalla collocazione dei lavori in uno spazio domestico. Le opere di Arianna De Nicola ci invitano ad addentrarci nella sua dimensione poetica, facendoci incontrare e scontrare con questioni basilari ma troppo spesso dimenticate. E’ proprio qui, nell’eden casalingo di 16 Civico, che ritroviamo la dimensione idillica di un paradiso ormai perduto.



Il giardino che non c’è

Testo critico
di Lorenzo Canova

L’ARATRO conclude la sua stagione espositiva con la mostra Il giardino che non c’è di Arianna De Nicola, giovane artista attiva tra Italia e Spagna, che realizzerà un’installazione site specific progettata appositamente per gli spazi del museo. Arianna De Nicola ha concepito uno spazio metaforico dove il giardino viene pensato e decostruito in una tensione dialettica tra l’elemento materico e la smaterializzazione dell’immagine, attraverso i codici formali e intellettuali di una visione dominata dalla monocromia. La scomparsa del giardino e la sua riapparizione trasfigurata costruiscono così un ponte tra la percezione dello spettatore e la sua presenza fisica nello spazio dell’installazione, negli ingranaggi costruttivi di un’opera che cerca di produrre stimoli di conoscenza attraverso un meccanismo di sottrazione fondato sulle coordinate minimali di un lavoro dominato dal bianco. Con uno sguardo spiazzante, e solo apparentemente raggelato, De Nicola, come un giardiniere paziente o come l’architetto di un paesaggio immaginario, dà forma alla sua vegetazione assente, ricomposta e presente attraverso la sua parafrasi artificiale e oggettuale, ritornando probabilmente alla memoria e alla nostalgia di un giardino perduto e possibile, forse di quel giardino edenico che resta come un archetipo del nostro profondo e che rappresenta il modello ideale di ogni giardino creato o negato. L’artista immagina e coltiva allora la sua opera come una rappresentazione dell’altrove verso il quale si vorrebbe forse ritornare, in una sospensione concettuale e quasi metafisica che ci riporta al grado zero del rapporto dell’uomo con il mondo, uno spazio dove, nella dialettica incessante tra natura e cultura, il giardino diventa il modello di un nuovo dialogo con il paesaggio e con la storia.



Il giardino che non c’è

Testo critico
di Piernicola Maria Di Iorio

Il paesaggio, il mito, il corpo e lo spirito, quegli aspetti evocativi e generativi del mondo, sono le suggestioni del giardino che non c'è, il nuovo lavoro site specific di Arianna De Nicola. Attraverso l'uso della bianca ceramica si creano spazi fisicamente ed emotivamente risonanti che fungono da ponti tra il passato e il presente; un momento di immobilità e riflessione su un orizzonte altrimenti in rapido movimento di pensiero e attività. Le diverse opere unite dal colore bianco rimandano ad una nuova dimensione che la stessa artista definisce una dimensione minimalista che sfida la gravità e stimola con leggerezza un senso di disorientamento, producendo un effetto di tensione spaziale. La De Nicola ha ideato e curato il bianco rendendolo protagonista di processo che mette oggetti in dialogo tra loro e con gli spazi che li circondano. Il bianco non è un colore neutro: obbliga altri colori a rivelarsi. Il suo vuoto suggerisce sia l'inizio sia la fine, mentre la sua purezza evoca l'impossibilità e l'ossessione.



Deep

Testo critico
di Esperanza Durán

El adjetivo profundo viene del latín profundus, que significa hondo, bajo, abismal, lo que llega o se dirige hacia el fondo. Pero en latín “profundus” es sobre todo lo que avanza al interior de algo hasta llegar a su límite, y por eso no siempre indica una dirección hacia abajo. En este trabajo titulado “Deep”, encontramos cabos vestidos de negro, cuerpos o, más bien, partes de cuerpos (bustos sin cabeza y piernas del revés) de cerámica blanca que se sumergen o que emergen, el mar, y sus líneas negras, en este caso, que delimitan. Como tema central, el “Yo” y el mar. Un “Yo” que hace referencia a los qualia (experiencia subjetiva de la sensación y el sentimiento, el qué se siente) y ese mar, “inmensidad íntima” como lo denomina Bachelard, sublime, infinito, inacabable e inabarcable del concepto romántico. El trabajo de Arianna en esta exposición se nos presenta como un todo cerrado y cuidado. Desde la performance “Overcoming the coastline” (en la que viste un cabo con más de 6.000 metros de hilo negro) hasta las obras en cerámica de pequeño formato, pasando por la instalación “Deep”, nos muestran un todo coherente y meditado. Coherente por las formas (ligeras y delicadas, como si se tratase de un objeto soñado), por los materiales (sencillos y frágiles, como si en cualquier instante pu- diesen romperse), coherente por la gama cromática en blanco y negro (limpia y extrema), coherente por la metáfora (el mar, con toda su simbología histórica, y personal), coherente por el discurso (la alienación, superación, bloqueo, miedo, a que los propios límites nos enfrentan). Pero lejos de encerrarnos en un discurso lineal y unilateral, nos presenta un guión abierto en el que poder realizar un viaje más allá de las fronteras físicas. Un viaje utópico cuya ida va cargada de una maleta repleta de olas insalvables y cuya vuelta te predispone a soltar lastre. Nos introduce, si te dejas hacer, en la realidad oscura y, a veces, impenetrable, de nuestro “yo” más profundo. “Deep” nos invita a realizar una inmersión en nuestros propios límites, a preguntarnos hasta dónde nos podemos o nos dejamos sumergir, a dudar si estamos entrando o saliendo, a fisgonear o rebuscar en aquello que nos da miedo de nosotros mismos, a cruzar las fronteras (impuestas o autoimpuestas) que nos impiden avanzar. Arianna De Nicola, en Deep, realiza una investigación para adentrarse en las profundidades del ser humano. Los límites físicos y psíquicos, los miedos visibles y los más escondidos. Un intento de inmersión en lo más profundo de la psique; Un viaje personal de confrontación con uno mismo y de superación. Más allá del minimalismo y de la sutileza estética, Arianna nos empuja a dar ese salto al vacío que supone superar las barreras que nos inundan el alma.